6 Marzo 2017
Fenomenologia dei buongiornissimi:
sul cattivo gusto
Con questo post inizio una serie dedicata all’analisi seria di un fenomeno che molti prendono sottogamba e che invece secondo me merita più attenzione. Sto parlando dei buongiornissimi, quelle immagini che traboccano di cuoricini, rose imperlate di rugiada, glitter, caffettiere e cappuccini. Sarà un’analisi lunga, dettagliata e soprattutto seria perché l’obiettivo non è divertirsi un po’ alle spalle di chi i buongiornissimi li usa in buona fede ma valutarne realisticamente le potenzialità come nuova forma di comunicazione. Per dire, posso tradurre la Divina Commedia in buongiornissimi o l’arte della grafica pixellata non potrà mai andare oltre gli inutili auguri di buon mercoledì?
Prima premessa liberatoria: sul cattivo gusto
Nella mia cerchia di amici e colleghi i buongiornissimi sono per definizione di cattivo gusto. Un annetto fa abbiamo persino aperto un gruppo su WhatsApp in cui copiamo gli esempi più imbarazzanti nei quali incappiamo per riderci su tutti insieme. Però se vogliamo davvero analizzare il fenomeno, una cosa dobbiamo fare innanzitutto: dimenticarci del concetto di cattivo gusto.
Per cattivo gusto si intende qualcosa (un gesto, un disegno, una frase) non necessariamente mal fatto ma sicuramente mal usato perché nel contesto sbagliato, al momento sbagliato, o con le persone sbagliate. Ma chi definisce quando un gesto è fatto male, al momento sbagliato o rivolto alle persone sbagliate?
Nullo è di cattivo gusto in assoluto, tutto può essere di cattivo gusto agli occhi di qualcuno.
Tutto: le battute di Bombolo, i video di Lady Gaga, le tette a punta di Madonna, gli RVM di Uomini & Donne, i nudi di Mapplethorpe, le scollature di Charlize Theron. Questa riflessione se ne porta dietro un’altra:
Il cattivo gusto non è oggettivo: esiste solo quando qualcuno riconosce una violazione -volontaria o meno non fa differenza- delle regole -scritte o non scritte non fa differenza- che ritiene necessario applicare al contesto specifico.
Facciamo un esempio.
La regola impone il rispetto delle credenze religiose di chi mi sta di fronte. Se incontro qualcuno per la prima volta, probabilmente eviterò di fare battutone brillanti basate sull’omonimia tra Madonna mamma-di-nostro-signore e Madonna regina-del-pop. Magari prima di buttarmi proverò a indagare le posizioni del mio interlocutore sulla questione per decidere il da farsi. Ma se me ne frego o se nessuno mi ha mai fatto notare che le battute a sfondo religioso vanno condivise solo con chi siamo sicurissimi la pensi come noi sulla faccenda? Ecco affacciarsi l’etichetta del cattivo gusto.
E se sono da solo e la battutona affiora alla mente e me la rido tra me e me? Senza nessuno che certifichi l’avvenuta violazione della regola, il cattivo gusto non c’è. C’è bisogno di uno sguardo che dall’alto della sua approfondita conoscenza delle regole di turno, ne sancisca l’avvenuta violazione e quindi l’avvenuto ingresso dell’interlocutore nel regno del cattivo gusto. Se non c’è sguardo giudicante, non c’è cattivo gusto.
Ma che c’entra tutto questo con i buongiornissimi?
C’entra perché se vogliamo fare un’analisi seria e utile del fenomeno dobbiamo avere il coraggio di non giudicare quello che vedremo. Quindi sì, lo prometto: mi dimenticherò delle regole della composizione, della proporzione aurea, della supremazia del minimal, e mi avventurerò nel mondo dei buongiornissimi senza pregiudizi. Auguratemi buona fortuna. Non vi sta bene? There’s a buongiornissimo for that.
Nel prossimo capitolo, la seconda premessa liberatoria: sul kitsch.
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